Rudolf Steiner e l’ottuplice sentiero
Nella prospettiva evolutiva, l’ottuplice sentiero è ancora valido per i tempi nostri? È come chiedersi: i dieci comandamenti di Mosè hanno ancora importanza? Non si può rispondere sì o no, ma sì e no: sì, sono ancora validi, ma non nello stesso modo in cui lo erano ai tempi di Mosè. Certo non possiamo dire che «non uccidere» non valga più, ma forse noi, oggi, siamo chiamati a non uccidere l’altro non solo fisicamente, ma anche a livelli ben diversi, molto più profondi; la nostra coscienza è in grado di capire che ci sono mille modi di uccidere e di venire uccisi nel proprio essere, modi che forse ai tempi di Mosè non esistevano.
Una risposta analoga possiamo darla in merito all’ottuplice sentiero del Buddha: in quanto sintesi delle norme fondamentali del divenire, esso è ancora valido, ma in modo diverso. È interessante il fatto che Rudolf Steiner, nel suo libro L’iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?, un manuale del cammino interiore moderno, inserisca, tra le tante cose, gli otto gradini dell’ottuplice sentiero del Buddha, tali e quali, quando parla dello sviluppo «del fiore di loto» connesso con la laringe.
È un fiore di loto a sedici petali: otto dobbiamo svilupparli noi e gli altri otto (che erano attivi per dono naturale quando l’umanità aveva un livello di coscienza ottuso e trasognato, e che nel corso dell’evoluzione si sono oscurati) si risvegliano poi, spontaneamente.
Del fiore di loto del cuore, che ha dodici petali, abbiamo già parlato a proposito delle sei virtù fondamentali: come per questo organo astrale sei petali li dobbiamo sviluppare da soli, tramite l’esercizio delle sei virtù, così anche per l’organo astrale della laringe, a sedici petali, otto li sviluppiamo noi, proprio attraverso gli otto esercizi proposti dal Buddha.
Leggendo questo capitolo del libro di Steiner ci si potrebbe chiedere: ma qui ho a che fare col buddhismo? Inoltre, è interessante notare che, sempre in Iniziazione. Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?, non si parla mai esplicitamente del Cristo, mentre nei decenni successivi l’Essere solare è di un’assoluta centralità in tutti gli scritti e le conferenze di Rudolf Steiner.
All’inizio del nostro secolo Steiner parlava essenzialmente a teosofi, che avevano un’affinità del cuore profondissima con la spiritualità orientale ed erano per lo più persone che non ne volevano sentire di cristianesimo.
Così come accade oggi: la reazione al cristianesimo tradizionale porta in sé una certa disaffezione che promuove svolte verso la spiritualità orientale. Perciò possiamo comprendere come anche Steiner dovette cominciare rivolgendosi a persone interessate alla spiritualità del Buddha e poco simpatizzanti per il cristianesimo.
Resta il fatto che ci troviamo di fronte all’ottuplice sentiero anche nel cammino della scienza dello spirito attuale. E vedremo che non sono gli otto sentieri che cambiano, ma il modo di praticarli in chiave moderna. L’evoluzione è fatta per conseguire dimensioni dell’umano sempre nuove. Ho già detto che se gli esseri umani hanno veramente preso sul serio il cammino del Buddha, e se hanno adoperato questi 2500 anni per generare in loro ciò che l’ottuplice cammino indicava, dovrebbero oggi trovarsi a un tutt’altro livello evolutivo.
Prendiamo l’esempio del rapporto col maestro che abbiamo già osservato: il Buddha insegnava ai discepoli come si trova il giusto. Ciò significa che 2500 anni fa era conforme ai tempi una profonda dipendenza del discepolo dal maestro, e non poteva essere diversamente. Oggi, proprio perché la coscienza umana è diventata più adulta e autonoma, diventa giusto qualcosa d’altro: l’indipendenza sempre maggiore del discepolo nei confronti del maestro. È nella dinamica di ogni insegnamento e di ogni pedagogia veramente moderni il portare il discepolo alla propria autonomia, alla propria dignità e sovranità.
Queste sono cose che non si possono dimostrare: o le si comprendono a partire dalla propria autoesperienza, oppure non si colgono certo tramite le argomentazioni intellettuali o le esperienze altrui. O comprendo me stesso in quanto uomo e mi vivo come un essere proteso verso l’esplicazione delle sue facoltà spirituali per diventare sempre più responsabile e creatore, oppure ho ancora l’esperienza di stadi preparatori, infantili.
Il Buddha, proprio perché appartiene alla rosa delle individualità somme dell’evoluzione umana, non poteva intendere il suo contributo che in chiave evolutiva: sapeva, allora, di dover operare in un’umanità ancora bambina ma volta a una crescita sempre maggiore delle forze di autonomia.
Un altro tratto fondamentale è il rapporto con il corpo nella meditazione buddhista, al quale abbiamo già accennato: il Buddha dava indicazioni sulla postura da prendere, sul come respirare… Il riferimento al corpo (e qui devo fare attenzione a non venir frainteso) è diventato nel corso del tempo sempre meno importante: nella meditazione moderna il corpo è la dimensione meno significativa che ci sia, e sarebbe un anacronismo voler spremere fuori dal corpo le esperienze che oggi vanno fatte a partire dallo spirito.
Il corpo oggi svolge la sua funzione migliore quando il meditante non lo nota. È come uno strumento musicale: quando è perfetto? Quando nessuno lo nota, perché noi godiamo la musica: siamo costretti a porre attenzione al violino, all’arpa, all’oboe quando qualcosa non va – si rompe una corda, sfugge un tasto, stona…
Se durante la meditazione siamo in una posizione troppo confortevole, notiamo il corpo perché, completamente rilassato e comodo, esso prende il sopravvento e noi ci addormentiamo. Se invece la posizione è troppo scomoda, il corpo si fa sentire e ne siamo infastiditi. Quindi bisogna trovare il giusto equilibrio: allora il corpo sarà uno strumento docile e saldo per quel che l’anima e lo spirito hanno da compiere.
La prospettiva evolutiva ci fa prendere molto sul serio il fatto che la corporeità umana, prima del Cristo (riassumo per grandi capi cose ben complesse) era di una sanità e di una vitalità che noi neanche ci sogniamo. Basta pensare ai Greci.
Il carattere di svolta dell’evoluzione, avvenuta 2000 anni fa, consiste anche nel fatto che il corpo ha cominciato a diventare sempre più decadente. Sempre più debole, fragile, friabile e sempre più meccanizzabile, cioè intriso di forze di morte. Ma questo non è negativo! Come nell’antichità si aspettava con gioia la vecchiaia sapendo che un corpo vecchio donava esperienze che un corpo giovane non poteva dare, così, dopo la svolta evolutiva, siamo in grado di guardare con gioia all’invecchiare proprio in base a ciò che il corpo non dà più. Anche questo è un risvolto del cammino interiore.
La meditazione antica si fondava su ciò che ci si poteva aspettare dalla saggezza del corpo, la meditazione moderna si fonda su ciò che il corpo non può più dare. Il senso positivo di questo mutamento evolutivo sta nel fatto che oggi possiamo generare forze a partire direttamente dall’anima e dallo spirito, proprio perché non possiamo più contare sul corpo. Ogni tipo di meditazione che ancora si basa su processi fisiologici di tipo vario è un dannoso anacronismo, perché continuare a evincere dal corpo esperienze spirituali diventa oggi un’enorme omissione al livello dell’attività animica e spirituale.
La grande verità evolutiva del cristianesimo è l’amore per la morte in quanto luogo di resurrezione dello spirito umano: è la gioia di non poter più contare sul corpo e il conseguente diritto di poter cominciare a contare sullo spirito. E finché un essere umano non ha compreso questa verità fondamentale, non ha nemmeno compreso il cristianesimo e la svolta evolutiva.
Come era bello e giusto che al tempo del Buddha fosse ancora il corpo a offrire tante possibilità di esperienze spirituali, così è giusto oggi che il corpo non le conceda più, e che noi sentiamo gioia e gratitudine per il fatto che le cose stiano così. Il venir meno del corpo è una provocazione infinita alla creatività dello spirito. L’uomo moderno ha la possibilità di amare l’invecchiamento e lo sgretolamento della materia in vista di ciò che diventa possibile raggiungere attraverso le forze dell’anima e dello spirito.
Cosa fa e cosa dice, oggi, il Buddha?
Uno degli aspetti più originali della scienza dello spirito è che ci parla del Buddha vivente oggi, ci descrive quel che il Buddha sente, vive e dice oggi all’umanità.
Il portato della dottrina buddhista di 2500 anni fa è storicamente importante: ma se il Buddha vivente ora dicesse all’umanità che bisogna fare passi evolutivi del tutto diversi, proprio perché ci sono nuovi compiti da svolgere, in che posizione si verrebbe a trovare il buddhista che voglia essere veramente fedele al Buddha?
Sto ponendo le cose in termini ipotetici: se fosse vero che il Buddha ha cose del tutto nuove da ispirare spiritualmente, sia per il buddhista orientale che per il buddhista occidentale la fedeltà ortodossa al Buddha tradizionale diventerebbe una tragica infedeltà al Buddha di oggi.
Io conosco soltanto la scienza dello spirito che sia in grado di porsi in rapporto spirituale col Buddha oggi vivente: il Buddha non è una teoria, il Buddha non è una dottrina. È un essere spirituale ben vivo che nel sesto secolo a.C. ha concluso il ciclo delle sue incarnazioni terrene, ma che dai mondi spirituali accompagna amorevolmente e con infinita sapienza l’umanità, alla quale continua ad inviare sempre nuove ispirazioni.
O forse pensiamo che il Buddha sia sparito nell’universo? O pensiamo che il Buddha non abbia assunto nel suo essere, con tutte le sue forze d’amore, l’evento del Cristo? Se l’Essere centrale del sistema solare, l’Essere dell’Amore, 2000 anni fa ha veramente compenetrato tutte le forze della Terra, possiamo mai pensare che il Buddha non abbia partecipato a quell’evento? Il sacrificio del Cristo sarebbe stato impossibile senza l’apporto essenziale del Buddha. Il Buddha stesso, spiritualmente, ha fatto passi evolutivi giganteschi e il suo stesso insegnamento andrebbe capito come l’ultima grande preparazione all’incarnazione del Verbo.
Sorge nella scienza dello spirito moderna un tutt’altro modo di paragonare le religioni. All’Università esiste la disciplina delle «Religioni comparate», che pone a confronto le religioni: si prendono le affermazioni fondamentali delle varie tradizioni religiose, i loro dati dottrinali salienti, per dimostrare che, in fondo, per quanto riguarda le verità di base tutte le religioni dicono la stessa cosa. S’intende provare che il Buddha non contraddice ciò che afferma il Cristo, e il Cristo non contraddice quel che dicono Confucio, Zarathustra, Maometto…
Il riferimento al contenuto comune di tutte le religioni è invece la cosa più marginale che si possa immaginare: non ha nulla a che fare con l’essenza di una religione. L’essenza del buddhismo non è la teoria del Buddha ma la trasformazione reale degli esseri umani avvenuta grazie al buddhismo. Ciò che gli uomini sono divenuti nel loro essere: questo è il buddhismo! Non la teoria.
Qual è la realtà del cristianesimo? Non certo le teorie o gli assunti dogmatici della teologia, che tanti nemmeno conoscono: la realtà del cristianesimo è ciò che gli uomini sono diventati nell’intera compagine del loro essere attraverso questi duemila anni di cosiddetto cristianesimo. Questa è la realtà.
Se possiamo considerare il Buddha come uno dei grandi inviati dell’Essere solare dell’Amore (dico cose da prendere come ipotesi di lavoro, di sicuro non da credere), con un compito evolutivo ben specifico, allora l’essenza della sua missione non sarà consistita nel dire qualcosa, ma nel fare qualcosa. L’evoluzione è la trasformazione degli esseri umani, non un accumulo di dottrine.
L’essenza dell’ottuplice sentiero, allora, non sta nei suoi enunciati, ma in ciò che noi siamo divenuti grazie a questi esercizi. Se è vero che abbiamo alle spalle ripetute vite terrene, questi esercizi li abbiamo fatti noi prima ancora dell’avvento del Cristo, e proprio perché li abbiamo già fatti ci siamo trasformati. E adesso altri inviati dell’Essere cosmico del sistema solare in cui siamo ci portano altre forze, altri gradini evolutivi.
L’interessante delle religioni non sono i tratti comuni ma ciò che presentano di diverso. Le religioni sono la grande pedagogia dell’umanità e hanno sempre fatto appello a dimensioni ogni volta diverse dell’essere umano in divenire. Le similitudini dottrinali sono una pura astrazione, un distillato intellettuale moderno: la vera essenza del buddhismo sono le facoltà, le forze che noi portiamo adesso nella struttura più profonda della nostra anima, e che sono il risultato dell’aver a suo tempo praticato gli esercizi dell’ottuplice sentiero.
Col buddhismo abbiamo attraversato tutt’altre esperienze rispetto a quelle che ci hanno portato Zarathustra o Confucio o Mosè… Se non comprendiamo questo, nella comparazione delle religioni ci comportiamo come uno scienziato che osservasse quel che l’essere umano fa a tre anni, a dieci, a vent’anni, poi a trenta e a sessanta, e si mettesse a far comparazioni nella ricerca dei punti in comune. Cosa troverebbe mai di comune? Che era sempre lo stesso essere umano ad agire, oppure che ogni sua azione significativa è da considerarsi come una crescita… Ma se ritenesse interessante che a tre anni l’essere umano vuole bene alla mamma e a cinquant’anni pure, non avrebbe certo colto l’essenza del fenomeno amore: sarebbe rimasto alla superficie.
Colgo l’essenza di un fenomeno quando guardo alla diversità delle sue manifestazioni: e la diversità non è contraddizione. Le religioni sono gradini di crescita dell’umanità, diversi ma non contraddittori. La dinamica evolutiva è unitaria, ma sempre differente. L’umanità ai tempi del Buddha era una tutt’altra umanità.
È una sfida per l’uomo moderno riuscire a capire che il Buddha vivente è molto triste quando vede uomini rimasti fermi a ciò che lui ha detto 2500 anni fa. La sua tristezza proviene dal fatto che deve accettare che molti non si rendono conto del dinamismo dell’evoluzione, e non comprendono che lui stesso, il Buddha, ha da dirci oggi tutt’altre cose. Soprattutto in relazione a una triplice costellazione di eventi legata al sacrificio dell’Essere dell’Amore.
I tre grandi eventi dopo la morte del Buddha
Soffermiamoci a considerare i tre grandi fatti evolutivi che hanno forgiato gli uomini dopo la morte del Buddha:
• il primo evento è la nascita dell’Io, che ai tempi del Buddha non manifestava ancora nell’umanità le sue forze;
• il secondo evento è la consapevolezza, che si affaccia alla coscienza umana, dell’impossibilità della salvazione singola: le sorti del singolo non sono private ma riguardano l’umanità nella sua interezza;
• il terzo evento è il sorgere nell’umanità della responsabilità evolutiva e morale nei confronti della Terra e dei suoi regni di natura.
Tutto ciò mancava, e non poteva che mancare, nel buddhismo tradizionale, cinquecento anni prima del Cristo.
1. Mancava l’esperienza dell’Io, perché l’esperienza e la realizzazione dell’Io nella sua pienezza sono il portato cumulativo di tutta l’evoluzione, passata e futura, e l’evento del Cristo ne è il fulcro.
Qui occorre una piccola parentesi: quando io parlo di buddhismo, mi riferisco sempre a quello ortodosso, a ciò che il Buddha stesso ha comunicato all’umanità nel VI secolo prima di Cristo. Il problema che sorge molto spesso, soprattutto in Occidente, riguardo all’oggettiva comprensione del buddhismo, è che nel corso di questi 2500 anni sono entrati in esso moltissimi elementi conoscitivi propri dell’evoluzione successiva. Contagi del cristianesimo, per esempio, molto belli perché contengono le forze conseguenti alla discesa dell’Io Sono nell’umanità, ma che non hanno nulla a che fare col buddhismo del Buddha.
Nel sacrificio del Golgota l’Io Sono entra nella Terra per portare tutte le condizioni necessarie all’acquisizione dell’Io. Quindi il Buddha, secoli prima, non poteva che affermare: l’Io è un’illusione. E lo era, a quei tempi. Forse ricorderete quel bellissimo dialogo tra il re Milinda, che pone la domanda sull’immortalità dell’Io, e il saggio Nagashena che s’impegna a dimostrargli che l’Io è un’illusione.
Il saggio Nagashena dice: tu, o re, sei venuto qui con un carro. Cosa è vero del carro? Qual è la realtà del carro? Le ruote, le stanghe, la cassetta, i pianali… i singoli elementi sono reali. Quando tu usi la parola «carro» e fai la somma di tutti questi elementi per non elencarli tutti, intendi forse un’altra realtà che sia oltre le parti? No. La realtà sono tutti i pezzi messi insieme. Così è l’essere umano: ha il corpo, ha le passioni dell’anima, i pensieri, i sentimenti, gli impulsi volitivi, ecc.: siccome tu non vuoi, ed è comprensibile, nominare ogni volta questa lista infinita, dici: «io». Ma dicendo «io» non ti riferisci a nulla di reale. L’io è un’illusione. La realtà sono i pezzi: la rabbia, c’è; la gioia, c’è; l’impulso volitivo, c’è; il mal di pancia, c’è. Ma l’io non c’è.
L’enorme passo evolutivo che abbiamo compiuto da duemila anni a questa parte è stato proprio il sorgere delle forze reali dell’Io. Non andate a dire a Fichte che l’Io è un’illusione! Vi risponderebbe: forse lo è per te, ma non per me. La filosofia degli idealisti è tutta fondata sull’esperienza sostanziale e reale dell’Io in quanto unità di tutta la compagine infinita delle realtà umane.
Ma l’esperienza dell’Io è anche la forza morale di attribuire a sé la molteplicità infinita delle proprie manifestazioni. L’umanità ha dovuto camminare a lungo prima di pervenire a questa consapevolezza.
I Greci, con il loro politeismo, vivevano al livello dell’anima, e nelle loro divinità vedevano effuse ed operanti all’esterno tutte le molteplici forze dell’anima. Per il greco la propria ira era suscitata da Marte che agiva nell’anima sua; e così la sua saggezza era faccenda di Atena e l’inventiva lo era di Mercurio…
L’ebraismo, preparando il cristianesimo, ha fatto sorgere l’esperienza del monoteismo che è l’annuncio dell’esperienza dell’Io. Dice l’ebreo: è vero che in me ci sono gli impulsi di Atena, di Zeus, di Marte e di Plutone; però c’è anche una forza unitaria che riunisce e governa tutti questi impulsi. Essendo ancora l’ebraismo una religione pre-cristica, l’esperienza interiore del nucleo unico e spirituale non è stata riferita all’Io del singolo uomo, ma al Dio, all’unico Dio Padre (Jahvè significa «Io Sono»).
Chi ha ragione? Il politeismo o il monoteismo? Tutti e due! Però io vivo in tutt’altro modo quando mi sento soltanto una somma d’impulsi e di fattori che, movendomi dall’esterno, sono responsabili del mio essere, rispetto al modo in cui vivo quando attribuisco al mio Io la creazione di tutto ciò che vive dentro di me. Tutte e due le posizioni sono possibili: si può vivere come essere dell’anima, disperdendo se stesso in tanti impulsi, o vivere come spirito, come essere unitario e individuale.
Il linguaggio stesso dà conto di tutte e due le esperienze. Se io dico: quello lì mi ha fatto arrabbiare!, sono nell’anima e affermo che l’altro è la causa e io sono l’effetto; è l’altro a decidere ciò che avviene dentro di me. Ma posso anche dire: io mi sono arrabbiato, e allora mi esprimo come un essere maggiormente evoluto, perché rendo responsabile me stesso. L’ottuplice sentiero viene allora percorso in un modo tutto nuovo se io cerco la giusta rappresentazione, la giusta parola, la giusta azione, ecc., a partire dalla forza dell’Io – e quindi sono io che devo trovarle con le forze della libertà e dell’amore –, oppure se vado dal padre spirituale a domandare: cosa devo dire in questa situazione? qual è la professione giusta per me?…
Dove sorge la forza dell’Io resta vero che la giusta posizione, la giusta parola, la giusta abitudine vanno trovate, ma le devo trovare io: questa è la differenza. Quindi non è l’ottuplice sentiero che cambia, ma cambia profondamente il modo di compiere questi atti fondamentali dell’umano: diventano otto gesti dell’Io.
È l’Io che vuol trovare la giusta rappresentazione attraverso l’attenzione alla percezione; è l’Io che lavora a farsi i giusti concetti; è l’Io che trova le giuste parole, le giuste azioni, il giusto posto nella società, le giuste abitudini, la giusta consequenzialità tra passato presente e futuro, la giusta introspezione meditativa. Tutti compiti dell’Io, della libertà dell’Io.
2. L’altra dimensione, che ai tempi del Buddha non si era ancora avverata nell’umanità, è la consapevolezza che, evolutivamente, o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Il buddhismo ortodosso si rivolgeva ad uomini la cui coscienza non era ancora al punto di assumere in sé il senso unitario e organico dell’umanità. Chi conosce il buddhismo ortodosso mi darà ragione quando dico: la salvezza che il Buddha ha presentato allora è una salvezza del tutto personale, privata. Il singolo cercava di purificarsi sempre di più (anche se la metodica per farlo era uguale per tutti) in modo da tirarsi fuori dalla ruota delle incarnazioni senza mai porre la domanda: e che cosa avverrà di tutti gli altri esseri umani? Mi riguarda la loro sorte?
Dopo la grande svolta del Cristo, l’uomo è chiamato a capire che una redenzione privata non esiste. Ci si può redimere solo amando e facendo avanzare tutta l’umanità: nessuno può raggiungere la pienezza dell’umano senza volere la pienezza di tutti gli esseri umani. Non è più concesso un cammino spirituale che permette di disattendere l’amore per tutta l’umanità.
Se avessimo più tempo potrei raccontarvi il modo in cui Steiner descrive gli incontri spirituali fra il Buddha e Gesù di Nazareth, sei secoli dopo la morte del Buddha. Il Buddha, pervaso dall’amore universale del Cristo, dell’Essere dell’Amore, comprende cosa a lui stesso mancava e cosa di conseguenza mancava nel suo insegnamento di cinquecento anni prima: la dimensione dell’amore universale.
3. Infine, cosa non meno importante, il Buddha, cinquecento anni prima del Cristo dice: compito del cammino spirituale è superare ogni brama che si rivolge al mondo visibile in modo da non aver più bisogno di incarnazioni. Cosa manca? Manca l’amore volto alla natura. Come se l’essere umano potesse entrare nel nirvana, nella beatitudine, nella perfezione del suo essere lasciando indietro e dimenticando gli animali, le piante, le pietre.
Il Buddha oggi spiritualmente dice: o essere umano, come tu ora hai e puoi liberamente incarnare le forze dell’amore verso i tuoi fratelli, così ora devi capire che non esiste redenzione dell’uomo senza una co-redenzione di tutte le creature dei regni di natura. Ognuno di noi assurge all’umano unicamente portando in sé e con sé tutta la Terra. Non c’è altra redenzione che la trasformazione amante di tutta la Terra.
Questa prospettiva di responsabilità cosmica e tellurica dell’essere umano non poteva essere presente nel VI secolo prima del Cristo. Ecco la realtà tangibile dell’evoluzione: oggi noi abbiamo la possibilità e la responsabilità di aggiungere al nostro cammino dimensioni realissime, profondissime ed essenziali che allora non erano accessibili alla nostra coscienza.
Immaginiamo, perciò, la pena infinita del Buddha, oggi, di fronte a persone che credono di essergli fedeli arrestando l’evoluzione al punto in cui si trovava 2500 anni fa, e che non intuiscono come lui stesso, il Buddha, abbia compiuto enormi passi evolutivi, accompagnando l’umanità.
È un anacronismo tragico quello di voler conservare un buddhismo che era bello e in armonia con l’uomo tanto e tanto tempo fa: così il Buddha diventa una teoria. Una teoria morta, immobile: l’attuale scienza dello spirito, voglio ripeterlo, è invece in grado di comprendere il Buddha quale essere vivente, volto ad aiutare tutti gli uomini là dove la sua forza d’amore realmente li trova, adesso, a camminare.
L’«ottuplice giusto» dei nostri tempi
Nella scienza dello spirito ci sono grandi tesori che conquistano il cuore, convincono la mente, e aggiungono al cristianesimo tradizionale un enorme ampliamento di orizzonti. C’è però sempre qualche cattolico che continua a chiedersi che cosa possa mai esserci di più in una qualunque scienza (seppure si definisca scienza dello spirito), di quanto non sia già presente nei vangeli e in tutto il patrimonio della tradizione cristiana. Chi fa queste domande, però, non ha la minima idea di questa nuova via di ricerca aperta all’umanità che, al di là dei sincretismi religiosi, arriva a porsi la domanda fondamentale: dov’è il Buddha, oggi? Cosa fa? Egli è vivente, è una realtà, o stiamo parlando di letteratura sclerotizzata? Purtroppo non esiste, questa domanda, nel cristianesimo della tradizione.
I sono stato nel Laos e i missionari più vecchi di me si aspettavano che io illuminassi i bravi buddhisti sugli errori della loro religione e li convertissi alla verità del cattolicesimo: questo è il cristianesimo tradizionale. Non c’è nessuna intenzione polemica in quello che dico, veramente non c’è: ma dobbiamo pur farci le idee un po’ più chiare.
Che il cristianesimo tradizionale faccia fatica a tener conto di questo nuovo impulso conoscitivo scientifico-spirituale, passi; però, nella nostra più profonda individualità, dobbiamo essere onesti e vedere come nella scienza dello spirito nasca la possibilità reale di amare il Buddha, di essergli grati e di apprezzare quel che ci ha permesso di divenire, 2500 anni fa, e di essere aperti a ciò che ha da dirci oggi. Non si tratta di esercitare la buona tolleranza verso altre credenze: si tratta di vita, della nostra vita, si tratta di riconoscere quanto più vasti e arditi siano i livelli di reciproca appartenenza fra gli esseri umani.
Come il Buddha di allora diceva: cerca di tirarti fuori il più presto possibile da questo mondo fisico!, così noi oggi diciamo: certo che la prospettiva evolutiva resta quella del Buddha – redimere e spiritualizzare – però, per spiritualizzare tutta la materia, per operare la resurrezione della carne (che è l’espressione cristiana per indicare la stessa cosa) e pervenire al termine delle incarnazioni, ci vuole tanto tempo.
La forza del Cristo annuncia che non si tratta di tirarsi fuori di corsa dalla vicenda terrena: si tratta, invece, di portare con sé tutta la Terra, tutta la natura, umanizzandola. E ci vorranno millenni. Ma l’affermazione fondamentale resta la stessa: abbiamo il compito di sollevare dalla pesantezza della gravità materiale tutto il creato. Perciò il Buddha aggiunge oggi: ci vogliono tante incarnazioni, e queste incarnazioni vanno volute e vanno amate. Che l’essere umano senta gioia, e si rallegri di avere il privilegio di poter ritornare sempre di nuovo sulla Terra, finché l’ultima creatura sia stata redenta, l’ultimo animale, l’ultima pianta, l’ultima pietra!
La Terra è la nostra madre, e il sacrificio immenso delle sue creature è la condizione prima della vita e dell’evoluzione nostra. Il creato si aspetta da noi di essere trasformato e transustanziato nella resurrezione della carne, operata dal nostro spirito. L’ottuplice giusto viene trovato in tutt’altro modo quando ci poniamo la domanda di cosa sia giusto nei confronti di tutta l’umanità e di tutta la natura.
Il Buddha del VI secolo a.C. aveva inteso tutti e otto i gesti dell’ottuplice sentiero in una dimensione di acquiescenza, di lieve rassegnazione. Prendiamo ad esempio la giusta posizione, il giusto posto nel mondo, il giusto karma. Il Buddha non diceva: con le forze della tua libertà devi ribellarti di fronte al fatto che la società, la nascita, l’eredità ti abbiano assegnato un posto, perché questo posto te lo devi scegliere autonomamente. Il Buddha diceva l’opposto: se ti trovi in una determinata casta, se ti trovi in un determinato karma, in una posizione sociale che è quella della tua famiglia, accettala e restaci. Quindi la giusta posizione voleva dire per il Buddha: accetta il tuo karma, perché là dove il karma ti pone lì stai bene.
Come reagisce l’uomo d’oggi di fronte a queste affermazioni? Va bene accettare il karma, va bene accettare i punti di partenza che sono quelli che sono; ma poi intervengo io, e al mio karma rispondo liberamente! Oggi ci sono perfino donne che non sono contente di essere donne: il Buddha di 2500 anni fa ne sarebbe orripilato! Ecco le differenze enormi: questi atti interiori erano visti, e lo dovevano, dal lato della sottomissione. Il karma è saggio e ti conduce.
Io non dico che oggi sia giusto l’opposto, che cioè non si debba accettare nulla e tutto vada cambiato: no. Oggi il compito è di ritrovare sempre di nuovo il giusto equilibrio tra la necessità – il destino, il karma appunto – e la libertà. Prendiamo ancora il giusto posto nella società, nella vita: come faccio a trovarlo? Ci sono due sbagli fondamentali, due estremi nei quali posso cadere: uno è quello di rassegnarmi ed essere del tutto passivo, come se fossero gli altri (lo Stato, la famiglia, il padre spirituale…) a dovermelo assegnare, questo posto; l’altro estremo è dire: io non ascolto nessuno, non devo niente a nessuno e la vita me la faccio come mi pare. Queste sono non verità perché ambedue disattendono la realtà: sono due forme di schiavitù.
Certo che oggi è ben più arduo trovare il giusto collocamento nel mondo di quanto non lo fosse ai tempi del Buddha: ma la libertà dell’Io, la forza dell’Io, si mostra proprio nella capacità di muoversi vivacemente tra questi due estremi, compresa la capacità di fare sbagli e d’imparare dagli sbagli (gli animali non sanno né sbagliare né imparare: sono in tutto e per tutto guidati dall’istinto).
Ciò presuppone che io debba tener conto, in armonia, di tutte e due le dimensioni del reale: da un lato c’è la vita, con i suoi accadimenti, i suoi incontri, i suoi scenari materiali e sociali, e dall’altro lato ci sono io che devo dire al mondo che cosa sono venuto a fare.
Chi mi dice quali sono i miei talenti? Il karma? La condizione sociale? Lo Stato? No, me lo dicono gli esseri umani che incontro. Se non c’è nessuno che mi riconosce un talento, posso dire di averlo davvero? Io mi ritengo il pittore più talentato di questo mondo… però nessuno apprezza i miei quadri. Beh, è colpa dell’umanità insensibile e ignorante. No, la forza dell’Io trova il proprio posto nel mondo in un modo tutto nuovo e si adopera a ristabilire sempre l’equilibrio reale tra il mondo esterno e il mondo interno, tra l’umanità e l’Io, tra la natura e l’Io. In questo dialogo infinito c’è l’esercizio della libertà.
Però, resta il dato fondamentale che la vita è fatta di questo ottuplice movimento:
• si tratta sempre di trovare l’attenta percezione in modo da avere le giuste rappresentazioni, le giuste immagini;
• in secondo luogo si tratta ancor oggi di farsi i giusti concetti, i giusti giudizi interiori sulle cose, di trovare la verità delle cose;
• si tratta sempre di esercitare la libertà dell’Io ponendo attenzione alla parola che si usa: amare la parola, non parlare a vanvera. Avere una responsabilità morale nei confronti della parola.
• Trovare la parola giusta che sia ferma quando l’altro ha bisogno di verità e sia dolce quando l’altro ha bisogno di incoraggiamento. E ci vuole l’una e ci vuole anche l’altra parola: e quando sia giusta l’una o l’altra lo devo sapere io; trovare le giuste azioni non è facile, oggi, in un mondo così complesso: ci vuole presenza di spirito per afferrare, di volta in volta, ciò che in quella situazione e in quel momento è giusto fare. Il giusto modo di agire non è uno schema mentale o comportamentale, ma è l’intervento sempre libero e attivo nella fantasia morale della vita;
• si tratta ancora di trovare la giusta posizione facendo il meglio in quella dove la vita ci ha già posti, ma con il cuore e la mente attenti e aperti: perché può darsi che si debba avere il coraggio di cambiare e ricominciare da capo. Ed è questo travaglio interiore che fa crescere la forza dell’Io;
• la giusta abitudine è l’arte di non di agire a casaccio, frastornati dal nuovo, ma di aderire costantemente col cuore, la mente e le mani a ciò che è bello, vero e buono;
• e poi dobbiamo adoperarci a costruire l’armonia giusta tra il nostro passato, il nostro presente e l’avvenire, perché siamo esseri espansi nel tempo e in ogni gesto presente abbiamo la responsabilità di testimoniare un passato e di annunciare un futuro;
• infine, l’ottavo sentiero dell’Io è il giusto modo di meditare, il giusto cammino introspettivo, il modo moderno di contemplare se stessi e il mondo.
Piero Archiati
tratto da:media.liberacoscienza.net